IL DIARIO DI PENULTIMO CAP 1


Scusi, anche lei deve morire?
"In un secolo in cui gli uomini muoiono a folle, magari cantando, io voglio presentare la mia piccola paura di morire. Nessuno si meravigli se io mi chiamerò Penultimo. Dopo di me verrà un altro e poi un altro ancora, così per l'albero e la bestia. Ognuno di noi è la storia di un Penultimo che spera o dispera: la vita stessa è un po’ questa storia. Se c'è qualcuno che dice di essere Ultimo, costui confonde l'effetto con la causa".
(Pagine tratte dal diario di Penultimo)

IL DUBBIO DI PENULTIMO
.... Una volta io stavo in collegio universitario a Torino, e certe notti non riuscivo a dormire. Aprivo la finestra dal secondo piano e guardavo in basso sulla lunga strada. A quell'ora non c'era che l'asfalto lucido, foglie sparse di cavolfiore e qualche mela marcia, perché sotto facevano il mercato.
Speravo che passasse qualcuno, a piedi o in bicicletta; se era un povero cristo non lo fermavo, ma se teneva un passo sicuro e distinto, mi divertivo a chiedergli: "Scusi, anche lei deve morire?..."
L'altro perdeva il passo, poi soffiava a malapena: "Perché?". "Ma s'immagini, rispondevo io, era per consolarci a vicenda!".
Il nottambulo frettoloso che tornava magari da un poker in casa d'amici e aveva la mente ferma al tris d'assi non se la dava a gambe, ma spesso credeva che fosse uno scherzo che gli giocava un tale favorito dal buio di un edificio a mattonelle. Prima sudava il panciotto e, preso un po’ di fiato, insisteva a imbestialirsi.
Finiva per mortificarmi quando con un botto di collera viperina mi ripeteva accigliato: "Lei s'interessi dei suoi affari!".
"Visto che se la prende, mio signore, e mi crede un altro, le auguro semplicemente buona notte."
"Macchè altro se io non so nemmeno chi sia lei!".
"Io sono Penultimo e anche lei non sarà certamente l'ultimo sulla terra. Vede, siamo parenti dopo tutto. Perché se la prende così?...".
La faccenda di Penultimo non lo convinceva affatto e, chiusa la parentesi, ripartiva tra le alte case addormentate, senza nessuna voglia di consolarsi a guardare le stelle. Ogni tanto si girava indietro e rompeva il passo, ma riusciva a colmare la sacca aperta dal pungente interrogativo solo quando si metteva a zufolare.....
Fermare i passanti nel cuore della notte divenne così un piacevole diversivo per la mia insonnia. Ero riuscito persino a fabbricarmi una voce gutturale e assente come di lontano indovino di Tebe che, per ammazzare la noia mortale, si appollaiava nelle crepe di qualche pietra enorme e intratteneva i viandanti. A quei tempi ciò capitava con maggiore solennità e io ne sentivo quasi un'acuta nostalgia. Mi accontentavo di incontri meno patetici.
Quello del garzone che lavorava nel forno davanti al collegio fu il più significativo e il più struggente. Era notte alta quando giunse in bici, tirò fuori dalle tasche la chiave del portone e stava per aprirlo che io dall'alto scandii: "Scusi, anche lei deve morire?..."
Dissi lentamente la frase e mi parve di vederla scivolare sul suo corpo, dalle spalle fino ai piedi, come una tuta. Fu gentile, appoggiò la bici contro la saracinesca e si girò dalla mia parte, poi, con voce educata e leggermente fatalista, mi rispose: "Cosa ci vuol fare, è una brutta trappola da cui non scappa nessuno!".
Gli augurai una buona morte e lui contraccambiò... ci saremmo stretti volentieri la mano e io non potevo allungarla perché stavo al secondo piano. Il collegio era chiuso a quell'ora, se no sarei sceso a fraternizzare col garzone proletario.
Una domenica mattina infine, senza che io avessi fatto la solita domanda rituale, mi giunse improvvisa la risposta dal basso della strada. Ero sotto le coperte che mi svegliò una voce: "Io sono morta trent'anni fa!...".
Mi toccai per sentirmi vivo o constatare se ero già piazzato in un al di là dove io presumo circolino queste confidenze.
La voce continuava forte e precisa: "Qualcuno è sopra di noi, lassù in alto! .... ".
Capii che se qualcuno era in alto, io soggiornavo ancora in basso con la fodera della mia pelle. Corsi alla finestra.
Chi gridava era una donna piovuta di chissà dove, un po’ alticcia e con un viso giallognolo da sembrare quasi in stato di medium. Camminava a fianco dell'amico o di vattelapesca; si reggevano l'un l'altro con le braccia al collo e parevano cascar dal sonno o forse erano usciti da una bettola, perché il padrone con fare bonario indugiava sull'uscio e li salutava come due vecchie poste.
D'un tratto la donna allentò il braccio dal collo dell'altro come per liberarsi d'una prigionia affettiva e insisté col sacro fervore d'una adepta dell'esercito della salvezza: "Non è vero che noi siamo persi sulla terra, lassù c'è qualcuno! .... " ma non poté finire la frase che l'amico la girò di
faccia e gridò a perdifiato: "Sono io il tuo qualcuno. Lascia perdere gli altri!".
Intanto si era fatto un piccolo cerchio di gente intorno ai due e tendeva ad aumentare perché essendosi formato davanti ad una latteria quelli che uscivano di là sostavano con un palmo di naso, stringendo la bottiglia del latte. E i bambini, anche se rari, correvano verso la piccola folla e cercavano di sfondare passando attraverso le gambe dei primi della fila quando giunse un questurino del rione e puntò il dito per dire che era tempo di finirla e, detto questo, infilò per primo l'angolo onde suggerire ai presenti la mossa da seguire. Loro rimasero, perché il discorso non era finito e il collegio stava ormai abbarbicato alle finestre con un occhio sì e un occhio no, mentre io facevo segno alla donna che l'avevo capita.
Lei mi guardò allora fissamente come in "trance" credendomi forse più vicino a quel qualcuno invocato e vistasi considerare dai miei gesti continuò ad urlare: "Siamo tutti fratelli, io sono morta trent'anni fa! È inutile la guerra, è inutile....".
L'amico si oscurò e si fece più diffidente: le chiese geloso se mi conosceva, poiché accompagnava le parole allargando le braccia verso di me, ma essa lo placò irrigidendosi sul busto e poi aggiunse: "Come se lo conosco. È il ragioniere e io gli lavavo le camicie due volte alla settimana".
"Hai ragione!" confermai io e mi sentii improvvisamente fasciare da una legione di camicie pulite, calate da un bucato fresco e invisibile. Poi pensai che trent'anni prima non ero ancora nato e contro la iettatura strinsi forte il montante della saracinesca per tirare i remi in barca e continuare a vivere.

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