Il Mistero della Grisa - parte 2 - Il ritorno a Rivalta

Il ritorno a Rivalta


Tornai a cercare la Grisa. Mi sembrava averla abbandonata, dopo la scoperta del suo arcipelago di oggetti in­verosimili, allineati su una invisibile panchina da cui po­teva spiccare il volo da un momento all'altro.Povera Grisa! I troppi anni le stavano stretti e venivano a galla le ambizioni mai sopite di riandare a vezzeggiare i vigneti per cogliere l'erba fresca tra i filari. Ora sovente era obbligata a segnare il passo, tra un piano e l'altro della casa, sbattendo sempre la testa in quel marasma che rendeva chiunque si fosse inoltrato di pochi metri nel su abitacolo.Non traeva alcuna compagnia dalle case vicine.La prima, in totale rovina, aveva persino smangiate le scale esterne e le finestre porgevano solo occhiaie spente.Di lì s'erano mossi gli occhi miopi del Baretti fanciullo quando giungeva da Torino per passare l'estate dai nonni. Ci sarebbero volute le voci concitate della Grisa per ravvivare quei silenzi di tomba. Tra le due case, in più s'alzava un divisorio di pietre e mattoni che tagliava nette le due proprietà.Il siparietto oscurava la figura della Grisa quando si abbassava sui recipienti carichi di pioggia. In un batter d'occhio lei studiava quale prendere. Lo sollevava da terra e lo appoggiava al petto come fosse un figliolo che rientrava nel nido.Attraversai il paese che festeggiava il suo primo Millennio con bianchi striscioni e cacce al tesoro nel fossato del pallone. Raggiunsi d'un sol fiato il cortile dei Baretti. La Grisa aveva la porta sbarrata. Stava a letto, coi vetri senza gli scuri. Sembrò più dannato quel cortile, coll'erba cresciuta e scarmigliata. Avrei voluto rubare qualche immagine o scorgere un lume che agolava tra le pareti delle sue stanze. Mi sentii come un ladro in trappola, alla mercè dellanotte fonda. Ripiegai verso la Chiesa e mi fermai sotto un lungo portico dove una volta l'Edoardo cuoceva il pane con le fascine. Un tizio gentile spuntò dalla penombra e mi contò che la Grisa s'era fatta più piccola. Ma era an­cora vivace e ogni sera di maggio veniva a recitare il rosa­rio per la Madonna.Il tizio aggiunse sconsolato: - Non ha perso il vizio di frugare tra i rifiuti, anche se i nuovi contenitori le impediscono di racimolare la roba di una volta. Cinque anni fa il Comune mandò una squadra a pulirle la casa. Sotto il letto trovarono un sacco colmo di soldi. Vennero versati alla Banca.Così la Grisa apprese che i soldi stavano meglio in una cassaforte, senza topi e senza ladri. Però, da quel giorno, lei misera dalla testa ai piedi, fu creduta ricca. In realtà, la continuarono a vedere mentre raccoglieva minuscole patate, scartate nei campi, o a fare incetta di pannocchie di meliga, dimenticate nei filari, che lei abbrustoliva sulla fiamma del camino. Quei grossi chicchi le parevano tanti occhi della Madonna.Rientrando a Casale, pensai alla moltitudine di gatti, sparsi nelle strade del vecchio borgo, una volta chiuso da un ponte levatoio. I gatti, rigidi come statue, attendevano la preda mentre le donne sole, sbarrate in casa, con la preghiera scongiuravano l'ultimo traguardo.Le stelle brillavano sul tetto della Grisa e la luce notturna, filtrando dai vetri senza schermo, inumidiva i suoi occhi socchiusi, forse in preda a sussulti di monologhi o stra­scichi di battibecchi. Era straordinario che da un corpo esile, come diceva quel tizio, uscisse la potenza di voce che io avevo udito in cima alle scale di quella strana casa. Si sa che in campagna, quando si parla, in realtà si grida. Chi ascolta, pare sempre sia sulla collina di fronte. Mi rattristai perchè non ero riuscito a scoprire le mortali sembianze della Grisa, nè a scippare la sua effigie di eterna contadina.
I giorni seguenti, quando il sole batteva forte sul Monferrato, io mi chiedevo se la Grisa faceva la siesta se si aggirava tra le stanze ove le cose si rimescolavano in assoluta libertà. Il latte e lo zucchero avranno avuto un posto di riguardo, così il pane e la verdura, strappata con le unghie dagli orti del paese. Mi figuravo anche che se fosse uscita per gli impegni religiosi o per le battute mattutine, la scala, ingorda di cartaccia, avrebbe trepidato nell'ansia del suo passo che risaliva ai piani superiori.A lei bastava un solo sguardo per cogliere la pianura, stretta al capezzale del Bormida, sempre più viola.La Grisa, nello scrigno dei ricordi certamente conservava una felice giovinezza, giocata sulla corda del ballo a palchetto quando sbalordiva per il passo di danza. Era con lei la zia Iolanda che pur ricamando dalle suore, le aveva insegnato i giri dei valzer e il passo della mazurka.Bei tempi! Le ragazze da una parte e i giovanotti dall'altra, mentre l'acetilene dei banchetti di torrone inondava l'aria di odori acidi e solforosi. Una marea di gente stava incollata al parapetto del ballo col tendone, per ore e ore, non perdendo una mossa della figlia o della nipote. Anch'io, quelle sere favolose, correvo come un dannato tra la folla, giocando a guardie e ladri, con altri dannati, pronti a spintonare chiunque fosse sul nostro passaggio.In verità, il destino pareva aver baciato in fronte la Grisa. Lei viveva a fianco della casa di Baretti. Il duce nel '35 aveva immortalato l'origine rivaltese dello scrittore con una lapide dettata da Luigino Caviglia. Venne infissa sotto le finestre delle suore dell'asilo Torre, con un palco solenne a filo del muro. Il Prefetto tirò il cordino e uno degli arditi rivaltesi si mise a gridare a squarciagola: "Viva il Perfetto! Viva!"Il padre della Grisa contava che il rivaltese, fattosi chia­mare Aristarco Scannabue, fece nel paese una grande incetta di dolcetto dei Maioli. Voleva smerciarlo a Londra tra i suoi amici.) Lo chiuse in nove botti e lo spedì in Inghilterra, tramite il Portogallo. Il vino non giunse mai a destinazione. Ci fu un disguido o i marinai portoghesi fiutarono la cosa e lo scolarono per intero. Ad ogni modo, Baretti, sul punto di morire, fece sturare una bottiglia di vino rivaltese, brindò al borgo natio e alle colline che conducevano ai Boschi. Poi chiuse gli occhi, nel tepore dell' alcool .Mi giravano in testa le parole di quel tizio che parlava d'una Grisa minuscola e leggera. Camminando, diceva, pareva scivolare in avanti, come fosse in barca e remasse per passare un guado. La sua vita scorreva senza offese di sorta e gli altri la lasciavano campare, convinti sempre più che lei giocava alla commedia di essere povera.Divenne una mia idea fissa conoscere la Grisa.Partii una seconda sera di maggio che non era ancora imbrunito. Corsi velocemente sull'autostrada. Un cielo minaccioso avanzava dai bricchi di Strevi. Giunto a Rivalta mi portai nel cortile della donna. Per le contrade, dai lampioni polverosi scendeva una ben fioca luce che pareva illuminare un purgatorio. Nuovamente, nel cortile già gravava una notte di pece. Stavolta mi accostai ai muri e sentii che la Grisa tossiva penosamente.Che l'avesse svegliata il mio scalpiccio? La tosse trapassava le vetrate disadorne con colpi insistenti. Il mattino era ancora lontano. Al segnale delle cinque, lei scendeva puntuale nel deserto paese. Raggiungeva la chiesa della Madonnina e usando la chiave nascosta entrava nel luogo dipreghiera che confinava muro a muro con la villa di Norberto Bobbio, che in giovinezza gli amici chiamavano Bettino.Su una panchetta schiacciava un tenero sonnellino, prima che don Paolo giungesse a dir messa. Le minuscole chiese erano le àncore del suo peregrinare mattutino. All’"Ite, Missa est!" lei ricominciava la rassegna lungo le strade o ai crocicchi.Talvolta rinveniva un paio di scarpette per il piede smagrito.Era il suo debole! Se poi veniva fuori un cappottino in disuso, scendeva la manna dal cielo. Ma capiva che ci sarebbero volute cento braccia per trasferire nelle larghe scansie a muro il ben di dio nascosto o per appenderlo ai tra­ballanti attaccapanni dei nonni. Il suo era ormai un gioco di sopravvivenza mentale. Si credeva braccata dal luccichio dei piedi della gente di Rivalta o dai cappotti profumati delle signore che mal volentieri sedevano al suo fianco in chiesa. Lei era diventata la giustiziera dello spreco. Ogni ora qualcosa veniva scartato e a lei dava la vertigine di riportarlo in vita, liberandolo dai lugubri sacchi in plastica nera. Se andava male, faceva incetta di cassette che riponeva sotto il portico, di fronte a casa. Di lì nasceva la legna per il suo camino antico in marmo nero.L'incontro con le cose abbandonate era commovente. Pareva un dialogo e non di rado la Grisa parlottava con gli oggetti che non opponevano resistenza e non costava­no una lira.D'altronde, lei non era una straccivendola, perchè non vendeva nulla. Ci pensava il Comune a liberare le sue stanze ogni tanto.Quei di Rivalta sospettavano che la Grisa avesse in testa il tarlo del denaro. Ma chi badava alla sua vecchiaia?Se il conto cresceva in banca, lei dormiva tra guanciali di lusso. Ma i guai suoi erano chiusi nel giro di quella matassa! Lei entrava timida in banca, deponeva la pensione di due mesi nelle mani del Direttore che l'accoglieva nel salottino riservato. Dopo qualche firma, usciva spennata come un pollo, con poche lire nella borsetta per non mo­rire di fame. Rientrava nei panni sporchi della poveraccia di sempre!Volutamente si alienava dalla ricchezza o dal denaro.Sapeva di possedere un conto, ma non consumava nul­la che lo facesse diminuire. Intanto il suo corpo si rimpiccioliva sempre più.
Solo quando sulla testa teneva una pila di cassette, si rammentava dei giorni lieti quando dentro le gabbie gettava l'erba delle vigne e i coniglietti parevano matti.Sentirla tossire quella sera mi riportò a pensare alla solitudine notturna di mia madre. Ne provai doppia pena e venni via dalla "Court d'Baret". Raggiunsi la rocca in rettilineo col campanile. Cercai di distrarmi, traendo dalla penombra l'immagine estesa del dirupo che si diramava dal glorioso fossato del pallone, pullulante di piante. Le case sul costone parevano levarsi dalla tolda di un'immensa nave, ancorata su un mare di sambuchi e acacie in fiore. Non si indovinava un sol metro quadrato brullo tra la fittissima vegetazione dove le piante selvatiche si stringevano l'una all'altra e toccate dal vento lambivano il muretto di confine della strada.Sprofondato in quel verde confuso alla notte, riandai ai tempi delle rozze capanne che crescevano nel canalone, in ogni dove, sotto la spinta e l'estro di bande di ragazzi che giocavano a fingersi eroi del Far West. Ben diversa era la visione dal cortile della Grisa, più a sud. In un paesaggio morbido e famigliare si dipanava la Rivalta degli orti dove gli asini Per centinaia di anni avevano arrancato attorno ai pozzi, girando senza fine con una pezza scura su­gli occhi. Quando la bestia si fermava di scatto, per scrollarsi una nuvola di moscerini o di vespe, dai solchi inon­dati d'acqua partiva la voce del padrone che chiamava per nome l'asino e lui ripartiva lemme lemme.Quella sera, tra dedali di portici e slarghi di piazzuole, ricavati dall'abbattimento di case decrepite, mi meravigliai per la vastità di quell'immaginaria nave che mai aveva preso il largo e che ora diveniva più elegante e moderna. Il borgo rinasceva, perchè ogni tanto da Genova o da Milano giungevano forestieri, sulla scia di parenti morti o di voci di svendite. Costoro con pazienza e amore rimettevano in sesto un cortiletto con lampioni e pianticelle, o ricostruivano illusori manieri di vassalli.La casa dei Baretti, al contrario, andava alla malora. I discendenti se n'erano fuggiti alla Cappelletta, verso la Valdrua, lasciando nell'oblio le spesse mura dell'antica ca­sata. Baretti giaceva a Londra e non poteva lanciare gli schiocchi della sua "Frusta" leggendaria. Eppure a ridosso della "Court d'Baret" ruotava il vecchio paese, coi rari e signorili palazzi del Settecento, dalle porte in legno lavorato e gli stemmi alti sulle facciate.La Chiesa parrocchiale, rimessa a nuovo, restava l'oasi imponente con la sua severa cancellata che la separava nettamente dalla via Baretti. La trovai aperta sul tardi, spinsi la porta in avanti per far capolino tra le navate e nel balbettio di lampade votive rivissi sull'istante giorni della mia vita.Fui spinto a quel gesto da una bianca Madonna col bambino in braccio, incassata nell'angolo del campanile. Spirava uno strano vento di dolcezza su chi transitava.Fu così, che girando a caso da una contrada all'altra, sotto una luce avara e tra spazi a singhiozzo, io venivo ragionando di signorie e di servi della gleba, di antiche caste e di Comuni fieri dinanzi al sopruso. Ora tutto filava liscio sull'onda di un equilibrio, rotto da molti che avevano lasciato il borgo per chiudersi in condomini di periferia. Attorno alla Chiesa, timoniera delle nascite e delle morti, era d'uso la pazienza di stare gomito a gomito. Era un tirocinio che s'apprendeva già dall'infanzia quando la vita di ognuno pareva congiungersi a quella degli altri, nel bene e nel male. Le voci dei Ghilini, dei Bruni o dei Torre, s'erano perse per sempre nei meandri del vallone sottostante. E con loro era scomparsa l'unità medievale o signorile. Restavano i bisogni primari e talvolta la chiusura con gli altri.La Grisa faceva regola a sè. Aveva fiutato che tutto ormai girava sulla trottola del denaro. Lei teneva duro, coltivando la tetragona virtù della parsimonia che le aveva instillato la madre contadina. Un'ora in più letto era tempo perso. La baracca non marciava e il fuoco nel camino non scoppiettava se sotto il portico di casa non si assiepavano le cassette, gettate via dai rivaltesi. Per rompere la solitudine, le bastava un monologo più concitato o allungare le scarni mani sulle fiamme, crepitanti coi tanti legnetti secchi e sbriciolati.




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