Il Mistero della Grisa - parte 1 - Racconti del Borgo

Alla forte gente di Rivalta,
nel primo Millenio del Borgo,
dal cui ceppo nacquero
Giuseppe Baretti e Norberto Bobbio,
perchè dalle lontane radici
si scoprano antiche momorie
e segrete ragioni d'essere.

Il Mistero della Grisa
Stando in quel cortile, pieno di sterpaglie e di gatti randagi che da me fuggivano per infilare oscuri viottoli di cantine abbandonate, mi tornò alla mente l'ombroso letterato Baretti, morto a Londra sul finire del '700.
Oltre il voltone d'entrata occhieggiava la malandata casa dei suoi avi. La spianata si chiamava la "Court d'Baret".
Il cortile si apriva su una stradina erbosa che portava alla rocca di tufo, costeggiando due pini.
L'ultima casa a destra era sigillata. Mi diede una stretta al cuore. Vi era vissuto Ruchèn, leggendario personaggio di Rivalta che apparì nel mio romanzo "Maso desnudo". Fu un divoratore di libri, appassionato socialista e poeta. Correva in capo al mondo, pur di sentire un'aria di Verdi o di Puccini.
Tra la casa di Ruchèn e di Baretti si ergeva una strana Babilonia. Oggetti inverosimili stavano accatastati contro i muri o sui balconi di legno. Lì per lì credetti ci stesse uno straccivendolo che vi teneva uno straripante magazzino. Pentole di varie misure, a briglia sciolta, affumicate e colme di pioggia, sbadigliavano per terra, sul davanti, tra pozzanghere e ciuffi d'erba. La merce imballata pareva pronta per imbarcarsi su una rinata Arca di Noè che si fosse accostata alla rocca di tufo.
La porta d'ingresso e le finestre sui balconi dei due piani erano spalancate. Cautamente misi piede all'inizio della scala e mi piovvero voci dall'alto. Che qualcuno sgridasse l'intruso? Temendo ciò, non proseguii. Le voci continuarono per loro conto e per me erano il segno che ci abitava la gente di Rivalta. Ma quale gente, se passando con la coda dell'occhio sui mobili del pianterreno, scorgevo la polvere spessa un dito e cartaccia, sparsa ovunque?
Quell'abitazione divenne d'improvviso un enigma nel cuore del vecchio borgo. Intanto le grida del piano di sopra si mischiavano al marasma di roba di parecchie generazioni.
Tornato fuori, rividi materassi che si affondavano su damigiane impagliate. Resti di cucine dormivano tra seggiole sfilacciate. Scheletri di scopa e gloriosi parapioggia s'erano infilati nelle cataste con caparbietà. Quegli oggetti forse stazionavano in quella casa dall'inizio del secolo. Pareva che lì non si buttasse via nulla, anzi si sarebbe detto che tutto tornava utile, prima che fosse finito il mondo!
Non avrei mai immaginato un simile scenario, dopo tanti anni che non vi andavo più. C'ero stato quando, scrivendo su Rivalta, m'ero affacciato sulle finestre di Ruchèn. Sua sorella sedeva smarrita e lui si trascinava tristemente, appoggiandosi ai muri.
Tornai sui due piedi a pensare a quella casa del miste­ro. Mi dissi che veniva abitata di giorno e abbandonata verso sera. Così divagando, allungai lo sguardo oltre lo strapiombo e colsi la geometria degli orti e il verde dei pioppeti che riluceva lungo il Bormida. Le colline dell'Acquese si adagiavano pigramente sulla linea dell'Alto Monferrato. Accorciando lo sguardo, tornai nel cortile di Baretti e notai una grottesca statua tra sparuti oleandri che salu­tava col braccio alzato.
Non venni a capo della faccenda e tornai sui miei passi.
Sotto l'arco m'imbattei in una donna di mezza età che usciva da una porta aperta. Le chiesi di quelle voci udite nella strana casa, al centro del cortile. La donna non ri­spose subito. Accennò un sorrisetto vagamente ironico e sentenziò: - Ci abita la Grisa! Di anni ne ha un sacco e una sporta, più di ottanta. Non possiede nè luce, nè acqua. Di giorno sta con porte e finestre aperte. Non teme manco il diavolo. E non fa che parlare, parlare! ...


Capii che la povera Grisa rischiava ogni notte di bruciare viva coi mozziconi di candela. Forse andava a dormire come le galline. Le pentole, ricolme di acqua piovana, erano la sua scorta, come ai tempi dell'età della pietra. In quell'istante mi parve di rivedere una contadina che passava le giornate nelle vigne e rientrava tenendo sulla testa un perenne fascio d'erba per i conigli. Era rimasta sola e lei dialogava con le ombre delle sue stanze.
Guadagnai la piazza del paese, rimpiangendo di non aver rubato qualche suo monologo. M'era solo rimasto il suono acuto delle parole che vibravano tra vecchi oggetti domestici, gli unici che allietavano i suoi giorni interminabili.
Forse negli echi dei discorsi tornavano bisticci familiari e frange di anni perduti.
In dialetto, però Grisa suonava anche come il nomignolo della morte. Pensai che forse era lì che la scellerata giustiziera aveva scelto il rifugio segreto e a notte alta, col sacco a tracolla, volava dalla rocca e al ritorno beveva l'acqua piovana, per sentirsi parte della natura. Ma le casseruole bruciacchiate mi porgevano ben diversa immagine, degna dei tempi che corriamo.
La Grisa esisteva, in barba alla luce elettrica e all'acqua dei rubinetti. Menava scandalo. Ma i paesani potevano vantare come lei tutta quella roba di cinquanta o cent'anni fa? La gente, in realtà, restava indifferente e la Grisa contava meno di un ago nel pagliaio! Il vero guaio per la Grisa era quando non pioveva. Nessun pozzo era da quelle parti della rocca. E lei in quell'allegro disordine coltivava i lontani affetti, al riparo del vento del Nord che sibilava contro gli armadi, cacciati fuori dal nido paterno.
La Grisa era una presenza scomoda, una sorta di fatalità. La malasorte sembrava non sfiorarla. Ma lei ignorava che un giorno o l'altro sarebbe giunto il colpo, tra capo e collo? Le erano rimaste poche certezze. Mangiava il pane della prima cotta e si godeva il cielo a qualsiasi ora. Nella fiammella della candela o nella consunta lampada a petrolio rinveniva i visi del padre e della madre. Ogni sera resuscitavano per lei, rimasta col cuore di bambina.
Nel tepore di codeste miti presenze, la Grisa si addormentava nel sonno dei giusti e dei dimenticati. Stava sospesa nella sua isola, a filo di piombo sulla rocca da cui spuntò il borgo millenario quando Barbarossa assediò invano Alessandria.
I gatti randagi e spellacchiati entravano in scena quando lei posava il capo sul cuscino. Iniziavano a rovistare tra la roba e cercavano i nidi dei topi. Erano le sue fedeli sentinelle che badavano perchè tra le masserizie non ve­nisse mangiata viva, col rischio che il paese avrebbe rinvenuto le povere ossa della Grisa.


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