Il Mistero della Grisa - parte 3 - L'incontro


L'incontro con la Grisa
Come in un sottile gioco, la grisa appariva misera e gli altri la pensavano ricca. Intanto il gruzzolo cresceva ogni anno e lei non possedeva una spanna di luce nè un filo d'acqua. Era ferma al Settecento. Viveva in un farraginoso magazzino di cianfrusaglie da pochi soldi. Però, stando a letto, poteva catturare dai vetri la continua varietà del cielo, centellinando ogni ora della notte.Sarà stato che il nome di Grisa aveva un che di manzoniano e che io mi stavo affezionando a questo personaggio melanconico che lottava per sopravvivere, sarà stato che il suo caotico disordine mi dava l'idea del naufrago che si aggrappava a qualsiasi legno che galleggiasse, pur di giungere a riva, saranno state queste e altre cose: io nella Grisa vedevo la condizione umana, al limite del primitivo naturale o del disastro psicologico.La cercai ancora verso le sei del pomeriggio, in una giornata calda e luminosa. Superato il voltone dei Baretti, in punta di piedi, colsi un'immagine che pareva uscire da una pagina dei "Miserabili" di Victor Hugo. La Grisa stava rannicchiata su un pendio erboso, sotto il pino della casa ad archi, col viso per metà coperto da un fazzolettone colorato. Il sole picchiava forte sulla rocca e lei tendeva in avanti le gambe magre e scoperte, con le rotule gonfie e bruciacchiate. Con dita nervose, sgranellava un nero rosario e con suoni gutturali mormorava i misteri del Cri­sto. Non volli turbarla. Mi appoggiai alla casa del pino, quasi non fiatando. Per giorni avevo inseguito la sua vana figura e ora, per miracolo, la scoprivo sprofondata nell'erba smeraldina di fine maggio, mentre colloquiava col suo Dio.La Grisa capiva che il sole era il vero alleato e lei lo prendeva sulle gambe secche e chiazzate, recitando le sue devozioni all'aria aperta. Negli alti e bassi delle preghiere,fiutava a piene narici gli aromi della campagna che assediavano i bordi del cortile.Giunse da qualche cantina un gatto grigiastro a violare l'alone mistico del momento. La bestia mi scrutò di lontano e poi andò a cacciare il muso in una pignatta d'acqua piovana. Lei si permetteva di dissetare le bestiole della contrada. Il micio tentò di raggiungere il sito dove la Grisa s'era allungata, ma rivedendo me, rigido come un baccalà contro il muro, e temendo un agguato, fece marcia indietro. Iniziò a spruzzare il piede di una panca in marmo della casa di Ruchèn e riandò nuovamente alla ciotola, coll'aria del padrone bastonato. Si fece strada tra una catasta di cassette a cui s'appoggiava una lunga scure della Grisa e infilò i due balconi che sovrastavano il voltone d'entrata. Completò il giro d'ispezione spruzzando l'inferriata di un balcone e spiccò un salto sulla scala consunta e liscia dei Baretti che dall'esterno conduceva al solaio. I tonfi dei suoi salti si ripercossero tra le mura del cortile, invaso dall'ombra lunga dei tetti.La Grisa non seguì le peripezie del gatto. Volle godersi maggiormente il sole e tirò su il vestito di lana spessa. Passò ripetutamente la mano sinistra sulla gambe e frizionò la pelle calda. La preghiera stava terminando. Con uno scattò cacciò il rosario in una borsa di plastica e si sollevò da terra, raccogliendo straccetti sparsi. A gambe nude, e scalza tra l'erba, apparve in una traballante magrezza. Dondolando, scese per la stradina di Ruchèn e scomparve dal mio orizzonte. Rientrò di lì a poco con strani panni, freschi di bucato, e appoggiati sul braccio. Agguantò il giornale dell'Ancora di Acqui che aveva tenuto al fianco durante il rosario e lo cacciò nel vuoto di una cassetta, come fosse roba letta e destinata al fuoco. Per aria pizzicava l'odore della cena.Una decina di metri più in su, sotto il voltone, l'altra donna del cortile, similmente, stava trafficando con una cassetta. Alla spiccia, la cacciò sotto i tacchi; col destro menò un fendente così forte che fallì il segno. Perse l'e­quilibrio e sbandò col corpo di mezzo giro. Allungò le mani e si fermò contro il muro, traballando assai. Capii che quella era l'ora delle cassette!Intanto la Grisa scopriva un foglio giallo sepolto in un vecchio giornale. Venne attratta dal colore e dal titolo perchè si mise a leggerlo avidamente, senza perdere una virgola. Lo ritenne così prezioso che rincasò tenendolo tra le mani. Salì al piano superiore e chiuse le finestre, tornando poi a raccattare un piatto a fioroni, steso al sole come un panno da bucato. Ne annusò la fragranza, quasi volesse cacciar via l'odore di muffa che appestava i muri dove non cantava il camino.Fu in quell'istante che io uscii dalla mia silenziosa garitta. Ruppi il ghiaccio, chiedendole a bruciapelo dov'era la casa di Baretti. La Grisa mi guardò con aria smarrita, ma subitamente s'infervorò della faccenda.Mi segnò con ambe le mani la casa dagli archi sotto il tetto. Non volle indicarmi la vera casa decrepita di Baretti che stava a lato della sua. Io non la corressi e lei continuò: - Rivalta festeggia i mille anni del Borgo! I giovani sono venuti in gruppi nel cortile, coi costumi d'una volta. Hanno messo tavole e vino per ricordare Baretti. La banda musicale suonava allegra che era un piacere per me. E qualcuno ballava. Poi si mise a piovere grosso. Veniva giù che Dio la mandava. Presero a scappare, persino dalla rocca. I musicanti coi tromboni cercarono riparo sotto il vol­tone. Io sarò povera, ma stavo all'asciutto dietro la fine­stra di sopra e li guardavo che fuggivano eguali a topi.Negli occhi della Grisa balenò un lampo di compiacimento, misto al dispiacere vissuto dal paese scornato. Volli poi sapere dei rapporti coi vicini. Lei si mise a contare con voce sofferta: - Le case a fianco sono più morte che vive. Quella di fronte con i pini è di forestieri che arrivano da Genova ogni sabato. Sono una coppia. La moglie è una santa donna che mi vuole un gran bene! Il marito è peggio del diavolo. Non mi può soffrire. Lui viene dalla cit­tà, si è rifatto la casa, ma intorno le stanze non hanno un'a­nima viva! Bene o male, ci sono solo io nel cortile. I Grisa sono qui da tre generazioni, io ci vivo e ci morrò! Il suo tono s'era fatto lacrimevole e bisognoso d'affet­to. Lei teneva duro dall'inizio del secolo. Non sarebbe ba­stato il primo venuto per schiacciare la sua volontà di so­pravvivenza.- Mia madre, - le chiesi - lo sa che è morta cinque anni fa?- Altro che! - soggiunse lei - Ero al funerale e faceva un gran freddo. C'era anche la neve sulle colline d'intorno. La musica in cima al corteo faceva piangere! Io cammi­navo a lato del povero Cunì. All'improvviso, si sentì male e lo portarono a casa, in tutta fretta. Nel giro di due ore, raggiunse tua madre Rina!Mi accorgevo che aveva in testa tutta la vita di Rivalta. Conosceva morte e miracoli di ognuno. Allora io che l'a­vevo sentita tossire una sera quando entrai furtivamente dentro la "Court di Baret", le chiesi cosa sentisse in gola. Lei si confidò: - Ho una bella bronchite che mi dura da mesi! Viene la suora a curarmi e mi fa bere dello sciroppo. Ma io sono convinta che solo il latte caldo me la farà passare.Volli sapere come stava a soldi e se bastavano. Lei mi rispose: - Lo Stato mi passa la pensione minima e mi basta! Se spendessi come gli altri, pagherei pure l'acqua da bere. Io vado alla fontanella dietro la Chiesa o scendo alle Lavanche. Laggiù c'è un'acqua più leggera dell'aria! - Ma è lontanto - commentai io - È una tirata che fa mancare il respiro.Lei rimediò, aggiungendo: - Fuori casa ho sempre ciotole e secchielli per pigliare la pioggia. In quanto a fatica, caro mio, feci la giornaliera per oltre cinquant'anni, così mio fratello. Coi soldi messi insieme, quando la nostra casa in fondo a via Baretti scivolò nel burrone, comprammo questa. Che sia benedetta per tutto il lavoro fatto!La voce della Grisa usciva cavernosa e le parole le si incagliavano in gola. La storia della pensione filava liscia come l'olio, nè dal vestito, rimboccato sulle maniche, sporche e sciupate, trapelava l'ombra di una qualsiasi ricchezza da esibire.La Grisa stava bonariamente seduta su una bassa pan­chetta e da un tascone del largo vestito, certamente di un altro, estrasse un grosso pettine, a denti larghi. Iniziò a tirare i capelli all'indietro, con malcelati guizzi d'orgoglio femminile, non ancora scomparso. Da quel momento della toilette, ogni tanto ripeteva con sussiego: - Devo andare, mi aspettano!Sembrava che io fossi d'impiccio per il suo impegno. Ma lei continuava a passare con forza il pettine fino al punto che apparvero tre bernoccoli, simili a bianche cipolle, a zig, zag, sulla parte destra della testa."Pazienza uno!" pensai "Qui c'è un'intera famigliola".La Grisa tirò al massimo i capelli e li fermò con uno straccetto nero e lucido. Il suo viso ringiovanito pareva stare nel palmo della mia mano. Ebbi un momento di tenerezza; estrassi del denaro e glielo porsi. Lei rifiutò garbatamente e con dignità. Mi ripetè che la pensione era suffi­ciente per i suoi bisogni. Io insistei e lei a malincuore lo accettò. Infilò la banconota sotto una cassetta e diede l'ultimo strattone alla lunga chioma che se l'avesse sciolta sa­rebbe scivolata a fondo schiena, come le donne d'una volta.Allora con voce sicura e chiara mi disse che avrebbe pre­gato tutte le sere per l'anima di mia madre.- Prima di addormentarmi, prego per i parenti. D'ora in poi, metterò anche il nome di tua madre Rina! Volli sapere perchè la chiamavano Grisa.- Io sono la figlia della Grisa. Così accadeva anche per mia nonna! Ma ora, dove finirà questo nome, se non c'è più nessuno?Restammo in silenzio mentre per l'aria vagava il timore del futuro. Lei era l'ultima Grisa del borgo. Senza saperlo, aveva scelto di vivere come Diogene che nell'antica Atene predicava il ritorno alla natura, disdegnando tutte le comodità. Fuori di casa, invece lei conservava l'aria battagliera di Robinson Crusoè che, dopo il naufragio nell'isola, iniziò a raccogliere ogni cosa utile o ritenuta tale, con l'aiuto del selvaggio Venerdì.I giorni che restavano alla Grisa parevano combaciare sempre più con le voci che lei levava nel chiuso delle stanze. Quando si spegneva il sole, il mondo dei fantasmi tornava a pulsare nel suo cuore di donna pia e coraggiosa.I sentimenti e gli affetti salivano in gola o scendevano dalla testa allo schermo della memoria. Allora lei non era più sola nella notte mentre il campanile batteva le ore sui vetri spogli dei Grisa, alla soglia dell'eternità.

Il Mistero della Grisa - parte 2 - Il ritorno a Rivalta

Il ritorno a Rivalta


Tornai a cercare la Grisa. Mi sembrava averla abbandonata, dopo la scoperta del suo arcipelago di oggetti in­verosimili, allineati su una invisibile panchina da cui po­teva spiccare il volo da un momento all'altro.Povera Grisa! I troppi anni le stavano stretti e venivano a galla le ambizioni mai sopite di riandare a vezzeggiare i vigneti per cogliere l'erba fresca tra i filari. Ora sovente era obbligata a segnare il passo, tra un piano e l'altro della casa, sbattendo sempre la testa in quel marasma che rendeva chiunque si fosse inoltrato di pochi metri nel su abitacolo.Non traeva alcuna compagnia dalle case vicine.La prima, in totale rovina, aveva persino smangiate le scale esterne e le finestre porgevano solo occhiaie spente.Di lì s'erano mossi gli occhi miopi del Baretti fanciullo quando giungeva da Torino per passare l'estate dai nonni. Ci sarebbero volute le voci concitate della Grisa per ravvivare quei silenzi di tomba. Tra le due case, in più s'alzava un divisorio di pietre e mattoni che tagliava nette le due proprietà.Il siparietto oscurava la figura della Grisa quando si abbassava sui recipienti carichi di pioggia. In un batter d'occhio lei studiava quale prendere. Lo sollevava da terra e lo appoggiava al petto come fosse un figliolo che rientrava nel nido.Attraversai il paese che festeggiava il suo primo Millennio con bianchi striscioni e cacce al tesoro nel fossato del pallone. Raggiunsi d'un sol fiato il cortile dei Baretti. La Grisa aveva la porta sbarrata. Stava a letto, coi vetri senza gli scuri. Sembrò più dannato quel cortile, coll'erba cresciuta e scarmigliata. Avrei voluto rubare qualche immagine o scorgere un lume che agolava tra le pareti delle sue stanze. Mi sentii come un ladro in trappola, alla mercè dellanotte fonda. Ripiegai verso la Chiesa e mi fermai sotto un lungo portico dove una volta l'Edoardo cuoceva il pane con le fascine. Un tizio gentile spuntò dalla penombra e mi contò che la Grisa s'era fatta più piccola. Ma era an­cora vivace e ogni sera di maggio veniva a recitare il rosa­rio per la Madonna.Il tizio aggiunse sconsolato: - Non ha perso il vizio di frugare tra i rifiuti, anche se i nuovi contenitori le impediscono di racimolare la roba di una volta. Cinque anni fa il Comune mandò una squadra a pulirle la casa. Sotto il letto trovarono un sacco colmo di soldi. Vennero versati alla Banca.Così la Grisa apprese che i soldi stavano meglio in una cassaforte, senza topi e senza ladri. Però, da quel giorno, lei misera dalla testa ai piedi, fu creduta ricca. In realtà, la continuarono a vedere mentre raccoglieva minuscole patate, scartate nei campi, o a fare incetta di pannocchie di meliga, dimenticate nei filari, che lei abbrustoliva sulla fiamma del camino. Quei grossi chicchi le parevano tanti occhi della Madonna.Rientrando a Casale, pensai alla moltitudine di gatti, sparsi nelle strade del vecchio borgo, una volta chiuso da un ponte levatoio. I gatti, rigidi come statue, attendevano la preda mentre le donne sole, sbarrate in casa, con la preghiera scongiuravano l'ultimo traguardo.Le stelle brillavano sul tetto della Grisa e la luce notturna, filtrando dai vetri senza schermo, inumidiva i suoi occhi socchiusi, forse in preda a sussulti di monologhi o stra­scichi di battibecchi. Era straordinario che da un corpo esile, come diceva quel tizio, uscisse la potenza di voce che io avevo udito in cima alle scale di quella strana casa. Si sa che in campagna, quando si parla, in realtà si grida. Chi ascolta, pare sempre sia sulla collina di fronte. Mi rattristai perchè non ero riuscito a scoprire le mortali sembianze della Grisa, nè a scippare la sua effigie di eterna contadina.
I giorni seguenti, quando il sole batteva forte sul Monferrato, io mi chiedevo se la Grisa faceva la siesta se si aggirava tra le stanze ove le cose si rimescolavano in assoluta libertà. Il latte e lo zucchero avranno avuto un posto di riguardo, così il pane e la verdura, strappata con le unghie dagli orti del paese. Mi figuravo anche che se fosse uscita per gli impegni religiosi o per le battute mattutine, la scala, ingorda di cartaccia, avrebbe trepidato nell'ansia del suo passo che risaliva ai piani superiori.A lei bastava un solo sguardo per cogliere la pianura, stretta al capezzale del Bormida, sempre più viola.La Grisa, nello scrigno dei ricordi certamente conservava una felice giovinezza, giocata sulla corda del ballo a palchetto quando sbalordiva per il passo di danza. Era con lei la zia Iolanda che pur ricamando dalle suore, le aveva insegnato i giri dei valzer e il passo della mazurka.Bei tempi! Le ragazze da una parte e i giovanotti dall'altra, mentre l'acetilene dei banchetti di torrone inondava l'aria di odori acidi e solforosi. Una marea di gente stava incollata al parapetto del ballo col tendone, per ore e ore, non perdendo una mossa della figlia o della nipote. Anch'io, quelle sere favolose, correvo come un dannato tra la folla, giocando a guardie e ladri, con altri dannati, pronti a spintonare chiunque fosse sul nostro passaggio.In verità, il destino pareva aver baciato in fronte la Grisa. Lei viveva a fianco della casa di Baretti. Il duce nel '35 aveva immortalato l'origine rivaltese dello scrittore con una lapide dettata da Luigino Caviglia. Venne infissa sotto le finestre delle suore dell'asilo Torre, con un palco solenne a filo del muro. Il Prefetto tirò il cordino e uno degli arditi rivaltesi si mise a gridare a squarciagola: "Viva il Perfetto! Viva!"Il padre della Grisa contava che il rivaltese, fattosi chia­mare Aristarco Scannabue, fece nel paese una grande incetta di dolcetto dei Maioli. Voleva smerciarlo a Londra tra i suoi amici.) Lo chiuse in nove botti e lo spedì in Inghilterra, tramite il Portogallo. Il vino non giunse mai a destinazione. Ci fu un disguido o i marinai portoghesi fiutarono la cosa e lo scolarono per intero. Ad ogni modo, Baretti, sul punto di morire, fece sturare una bottiglia di vino rivaltese, brindò al borgo natio e alle colline che conducevano ai Boschi. Poi chiuse gli occhi, nel tepore dell' alcool .Mi giravano in testa le parole di quel tizio che parlava d'una Grisa minuscola e leggera. Camminando, diceva, pareva scivolare in avanti, come fosse in barca e remasse per passare un guado. La sua vita scorreva senza offese di sorta e gli altri la lasciavano campare, convinti sempre più che lei giocava alla commedia di essere povera.Divenne una mia idea fissa conoscere la Grisa.Partii una seconda sera di maggio che non era ancora imbrunito. Corsi velocemente sull'autostrada. Un cielo minaccioso avanzava dai bricchi di Strevi. Giunto a Rivalta mi portai nel cortile della donna. Per le contrade, dai lampioni polverosi scendeva una ben fioca luce che pareva illuminare un purgatorio. Nuovamente, nel cortile già gravava una notte di pece. Stavolta mi accostai ai muri e sentii che la Grisa tossiva penosamente.Che l'avesse svegliata il mio scalpiccio? La tosse trapassava le vetrate disadorne con colpi insistenti. Il mattino era ancora lontano. Al segnale delle cinque, lei scendeva puntuale nel deserto paese. Raggiungeva la chiesa della Madonnina e usando la chiave nascosta entrava nel luogo dipreghiera che confinava muro a muro con la villa di Norberto Bobbio, che in giovinezza gli amici chiamavano Bettino.Su una panchetta schiacciava un tenero sonnellino, prima che don Paolo giungesse a dir messa. Le minuscole chiese erano le àncore del suo peregrinare mattutino. All’"Ite, Missa est!" lei ricominciava la rassegna lungo le strade o ai crocicchi.Talvolta rinveniva un paio di scarpette per il piede smagrito.Era il suo debole! Se poi veniva fuori un cappottino in disuso, scendeva la manna dal cielo. Ma capiva che ci sarebbero volute cento braccia per trasferire nelle larghe scansie a muro il ben di dio nascosto o per appenderlo ai tra­ballanti attaccapanni dei nonni. Il suo era ormai un gioco di sopravvivenza mentale. Si credeva braccata dal luccichio dei piedi della gente di Rivalta o dai cappotti profumati delle signore che mal volentieri sedevano al suo fianco in chiesa. Lei era diventata la giustiziera dello spreco. Ogni ora qualcosa veniva scartato e a lei dava la vertigine di riportarlo in vita, liberandolo dai lugubri sacchi in plastica nera. Se andava male, faceva incetta di cassette che riponeva sotto il portico, di fronte a casa. Di lì nasceva la legna per il suo camino antico in marmo nero.L'incontro con le cose abbandonate era commovente. Pareva un dialogo e non di rado la Grisa parlottava con gli oggetti che non opponevano resistenza e non costava­no una lira.D'altronde, lei non era una straccivendola, perchè non vendeva nulla. Ci pensava il Comune a liberare le sue stanze ogni tanto.Quei di Rivalta sospettavano che la Grisa avesse in testa il tarlo del denaro. Ma chi badava alla sua vecchiaia?Se il conto cresceva in banca, lei dormiva tra guanciali di lusso. Ma i guai suoi erano chiusi nel giro di quella matassa! Lei entrava timida in banca, deponeva la pensione di due mesi nelle mani del Direttore che l'accoglieva nel salottino riservato. Dopo qualche firma, usciva spennata come un pollo, con poche lire nella borsetta per non mo­rire di fame. Rientrava nei panni sporchi della poveraccia di sempre!Volutamente si alienava dalla ricchezza o dal denaro.Sapeva di possedere un conto, ma non consumava nul­la che lo facesse diminuire. Intanto il suo corpo si rimpiccioliva sempre più.
Solo quando sulla testa teneva una pila di cassette, si rammentava dei giorni lieti quando dentro le gabbie gettava l'erba delle vigne e i coniglietti parevano matti.Sentirla tossire quella sera mi riportò a pensare alla solitudine notturna di mia madre. Ne provai doppia pena e venni via dalla "Court d'Baret". Raggiunsi la rocca in rettilineo col campanile. Cercai di distrarmi, traendo dalla penombra l'immagine estesa del dirupo che si diramava dal glorioso fossato del pallone, pullulante di piante. Le case sul costone parevano levarsi dalla tolda di un'immensa nave, ancorata su un mare di sambuchi e acacie in fiore. Non si indovinava un sol metro quadrato brullo tra la fittissima vegetazione dove le piante selvatiche si stringevano l'una all'altra e toccate dal vento lambivano il muretto di confine della strada.Sprofondato in quel verde confuso alla notte, riandai ai tempi delle rozze capanne che crescevano nel canalone, in ogni dove, sotto la spinta e l'estro di bande di ragazzi che giocavano a fingersi eroi del Far West. Ben diversa era la visione dal cortile della Grisa, più a sud. In un paesaggio morbido e famigliare si dipanava la Rivalta degli orti dove gli asini Per centinaia di anni avevano arrancato attorno ai pozzi, girando senza fine con una pezza scura su­gli occhi. Quando la bestia si fermava di scatto, per scrollarsi una nuvola di moscerini o di vespe, dai solchi inon­dati d'acqua partiva la voce del padrone che chiamava per nome l'asino e lui ripartiva lemme lemme.Quella sera, tra dedali di portici e slarghi di piazzuole, ricavati dall'abbattimento di case decrepite, mi meravigliai per la vastità di quell'immaginaria nave che mai aveva preso il largo e che ora diveniva più elegante e moderna. Il borgo rinasceva, perchè ogni tanto da Genova o da Milano giungevano forestieri, sulla scia di parenti morti o di voci di svendite. Costoro con pazienza e amore rimettevano in sesto un cortiletto con lampioni e pianticelle, o ricostruivano illusori manieri di vassalli.La casa dei Baretti, al contrario, andava alla malora. I discendenti se n'erano fuggiti alla Cappelletta, verso la Valdrua, lasciando nell'oblio le spesse mura dell'antica ca­sata. Baretti giaceva a Londra e non poteva lanciare gli schiocchi della sua "Frusta" leggendaria. Eppure a ridosso della "Court d'Baret" ruotava il vecchio paese, coi rari e signorili palazzi del Settecento, dalle porte in legno lavorato e gli stemmi alti sulle facciate.La Chiesa parrocchiale, rimessa a nuovo, restava l'oasi imponente con la sua severa cancellata che la separava nettamente dalla via Baretti. La trovai aperta sul tardi, spinsi la porta in avanti per far capolino tra le navate e nel balbettio di lampade votive rivissi sull'istante giorni della mia vita.Fui spinto a quel gesto da una bianca Madonna col bambino in braccio, incassata nell'angolo del campanile. Spirava uno strano vento di dolcezza su chi transitava.Fu così, che girando a caso da una contrada all'altra, sotto una luce avara e tra spazi a singhiozzo, io venivo ragionando di signorie e di servi della gleba, di antiche caste e di Comuni fieri dinanzi al sopruso. Ora tutto filava liscio sull'onda di un equilibrio, rotto da molti che avevano lasciato il borgo per chiudersi in condomini di periferia. Attorno alla Chiesa, timoniera delle nascite e delle morti, era d'uso la pazienza di stare gomito a gomito. Era un tirocinio che s'apprendeva già dall'infanzia quando la vita di ognuno pareva congiungersi a quella degli altri, nel bene e nel male. Le voci dei Ghilini, dei Bruni o dei Torre, s'erano perse per sempre nei meandri del vallone sottostante. E con loro era scomparsa l'unità medievale o signorile. Restavano i bisogni primari e talvolta la chiusura con gli altri.La Grisa faceva regola a sè. Aveva fiutato che tutto ormai girava sulla trottola del denaro. Lei teneva duro, coltivando la tetragona virtù della parsimonia che le aveva instillato la madre contadina. Un'ora in più letto era tempo perso. La baracca non marciava e il fuoco nel camino non scoppiettava se sotto il portico di casa non si assiepavano le cassette, gettate via dai rivaltesi. Per rompere la solitudine, le bastava un monologo più concitato o allungare le scarni mani sulle fiamme, crepitanti coi tanti legnetti secchi e sbriciolati.




Ricordando Gabriele Serrafero

mai più cortecce dilaniate sui monti,
nè simulacri di civiltà effimere e voraci:
noi ieri fummo corpi in effusione di vita!

Il Partigiano assetato - Gabriele Mucchi 1995 - Premio "Città di Casale"


AMICO GABRIELE, IN QUEL DI

CAMINO CI SEMBRAVI ETERNO!...

Lassù eri più vicino alle stelle.
Ti governava pazienza arcana
e diuturna arte di vivere .
Verrà a mancare la tua saggezza!
Saperti di quasi cent’anni dava
---
allegria, dentro una scrittura
che irroravi d’ironia sottile.
Ora chiedi congedo e t’inerpichi
per altre strade ove udrai passi
remoti e forse i nostri. Reggerai
---
a cotanto sonno? Rammenti, Gabriele?
Fu il tuo senno a guidarci per dar
volto d’arte alla Resistenza di ieri.
Porgevi a tutti qualcosa perché
si potesse correre a braccia larghe
---
sotto l’albero della vita. Amico mio,
ci fossero ombre di betulle sui tuoi
silenzi! Tu sapevi coesistere
con le cose: era un modo di ragionar
con il mondo e con la storia. Come vedi,
---
ce ne stiamo andando alla chetichella.
Se un dì, nei vicoli di un aldilà potremo
comporre una Rassegna d’arte per riaver
luce e ansia terrestre, saremo io e te
a levar codesta baracca, accampati come
---
una volta in riva d’un fiume d’epoca,
o sul dorso delle tue colline in fiore.
Non ci punga spina di rovo, né serpe
o diatriba di umani, ma vocio di gatti
in amore. Vero Gabriele, in
vaghezza di Camino?

Jean a Gabriele Serrafero
Domenica 21 novembre 2004
-
Triste il nostro saliscendi nel cimitero
di Camino per cogliere il tuo Golgota!...
---
Anche tu giungesti in salita, trascinato
a braccio, dentro un involucro, con rotelle
impazzite. Vestivi panni d’Amleto in groppa
al non essere. Cadde puntuale il “Crucifige!
Crucifige!” T’appesero con ruvida pietà
contadina all’albero della luce, o del bene
---
e del male? Ti chiusero a chiave dentro
il muro di cinta, anche se avevi sognato
di divenir ala di farfalla, barlume
di tramonto! Si spegneva ogni frammento.
E in noi vegliavano quei tuoi versi
di seta morbida, quasi di Saffo, smarriti
---
su labbra di nipote. Che non reggeva il tuo
vento d’amore e lo spartiva con noi, nonno
Gabriele! Parole le tue che parevano dir
“grazie” all’ultimo pomeriggio di muschio
e di sole, alla nostra vanità terrestre!
Che un dì io e te mutavamo in lirica
---
semente e in trepido guanciale d’infinito.
Me ne andai da quel borgo che dorme grosso,
come un gatto randagio, confuso a passi,
e a visi senza voce. E risentii Paul Valery
che gridava “Il faut tenter de vivre!”
Ma di rimando il tuo “Crucifige!” in me
---
scandiva altro suono: Mon Valery, il faut
mourir à l’infini! “Et maintenant qu’il fait
nuit, mon ami Gabriel, je répéte comm’il était
beau quand nous disions « Il faut, il faut
tenter de vivre dedans le mystère, le long
d’un fleuve qui nait et meurt en nous ! »

Jean Servato
Martedì 23 novembre 2004

TAVOLI CINESI


Un anno muore tra le mura d'un Palazzo Reale

AVANT PROPOS!
Siam tanti, forse troppi:
in pochissimo spazio.
Potremmo sfilarci catenella
e portafoglio. Invece mungiamo
sorrisi cinesi su diacce
sponde del Po. Siam dannati
a divorar l’anima di Mao
Tzè Thung, mentre il tempo
scalpita a piedi scalzi?
Non balena bavaglio d’alcun
re: forse divorato sul Golfo
Indiano da coccodrillo
di ringhiera! Possiam gridar
“Viva il re!” ora che tace?

RUMOR SOVRANO
Illo urla al microfono
e non dà tregua. Un povero
Cristo si guadagna la pagnotta.
E ci strazia d’un immenso
dodecafonico, simile
a brodo di seppie,
care al levantino Montale.
L’esecrabile illo ci priva
d’un misero silenzio
ove nasconderci per sognare...

VOCI TRADITE DALL’AFFANNO
di durare ci lasciano indifesi
a far squallido “introìbo”
a cataratta d’infinito.
Che ci vuol caporali di giornata!

GRAZIE MIRACOLOSA CINA!
Ci stai sfamando come dannati
della Cajenna. Mangeremmo
lembi di nuvole pur di gridare
a mezzanotte
che siam più vecchi di Noè!

SE A SAN SILVESTRO
è lecito sognare, torneremo
fra cent’anni a pianger
sul grembo di ilari
cinesine per dir “Oh! Se la vita
fosse cosa seria!...”

SE IN QUESTO RUMORE
udissi la voce di Gesù
quando sussurra: “Passi da me
l’amaro calice!” riandrei
al peccato originale,
incalzato da ire di cherubini
di servizio? O quel tizio,
appeso al microfono, diverrebbe
monaco trappista o tibetano
che invita a indossar galoscie
per traversar palude di ranocchie?
E rivedrei farfalle sul naso
di Bergerac mentre grida
“Cos’è un bacio se manca
la Dama di Cyrano?” In verità, quel
dì nel salotto di Rostand, accanto
a me indugiava solare indocinese!...

BEN GIUNGA ARCANA LIQUIRIZIA
di Confucio quand’andava in ogni
chiesa a porger candele per
codesto nulla del malaffare!
Che vola in groppa al mondo
e mai s’acquieta. Se almeno
dicesse di goder d’un melograno
smarrito in un solaio di Tutankamen!
Diverremmo cittadini del mondo
gridando forte “Giulianova
sull’Adriatico!” Quasi fosse
donna da spargere amore
su chiome argentate?...

IL CIELO DI CONFUCIO
avea gran dimestichezza
con l’attimo fuggente.
E’ vero: non dava garanzia
di sorta, solo testarda
volontà di rappresentare
codesto mondo, in carne
e ossa da riciclare ogni dì,
ogni dinastia, con saggezza!

RITRATTO D’UN TESTONE CALVO!
Aveva un isolotto in testa,
vispo e tondo e teneva dita
gonfie per usura di cibarie!
Io m’illudevo di star sul Fiume
Rosso a cercar lumache parigine.
Poi sussurrai: “Mio bel testone,
rasato come un biliardo, forse
giochi a mosca cieca tra mongoli
e cinesi che si mangian le ossa
da mezzodì a mezzanotte! Eppur
ti scorgo nei panni d’un Lenny
di “Uomini e topi” di Steinbek.
Smaniavi per dar carezze ai conigli.
Appena li tastavi, restavan secchi!
Non vorrei che menassi tue dita
sul collo d’un 2005, appena schiuso
in Bottega dell’infinito! Se accadesse,
saremmo in mano a un Moloch di
periferia, non a un Don Chisciotte
di frontiera! Meglio sarebbe
si pagasse una tantum a un dio
fattosi carne per divorar restanti
gamberoni alla brace?
Ulisse assente, per fortuna!

Jean Servato
quandoil 31 dicembre 2004
s’annegava tra le stanze
d’un affollato Palazzo Reale

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Miei Colombi di Guardia al Cielo

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Raccolta di poesie inedite